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Parte I Cap6
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Canti e leggende

Usi e costumi di Ciminna

Dr Vito Graziano

Pubblicato MCMXXXV

Parte prima cap.6

La coltivazione del lino

1. Scelta e preparazione del terreno.

La cultura del lino (linum usitatissimum L.) era fino a mezzo secolo addietro molto diffusa nel territorio di Ciminna, ma ora essa non esiste più per la sostituzione di altri tessuti alla tela, per le macchine di nuova invenzione e per la legge del 22 dicembre 1888 e per altre leggi posteriori, che limitano la macerazione delle piante tessili. Parecchi scrittori, fra i quali Pitrè1 , Benedetto Rubino2, Michele Alesso3, F. Pulci4 ed altri hanno trattato la filatura e la tessitura del lino, io accennerò invece alla coltivazione del lino, perché meno conosciuta.
Per ottenere una buona produzione il lino si seminava nei terreni fertili, preferibilmente calcarei (vuschigni), e mai in quelli argillosi (gritìgni). Si seminava nei campi a maggese e raramente in quelli dove 1' anno precedente era stato seminato lino o grano ; per lo più si alternava con la cultura delle fave e d'altre leguminose.
La preparazione del terreno cominciava dopo la mietitura, liberandolo dalle erbe parassite e facendo in seguito due arature o zappature

(1) Biblioteca delle tradizioni popolari, voi. XXV, pagg. 127-160.
(2) VarMas di M.lano, febbraio 1913, anno X, r>. 106, pagg. 137,142, e F..U klore di San Fratello, A. Reber, Palermo, 1914, pagg. 37-50.
(3) Sicania, an. IX, pag. 8.
(4) Sicania, an. IV, pag, 14.

2. Semina del lino.

2. La semina si faceva in ottobre (favi, e linu quannu lu parmentu è chinu). In un tumulo di terra (mq. 1394) si seminava a spaglio un tumolo e quattro carezze di linseme (linusa), che doveva prima essere liberato dai semi di cattive erbe (loglio, trifoglio, giagiolo, ecc.). Quanto più folto (sirratu) era il lino, tanto più alto e sottile cresceva. Quando il grano spunta folto si dice ancora per somiglianzà affaccia comu u linu. Se il lino si seminava rado cresceva con lo stelo grosso (frascusu), con una proporzione maggiore di materia legnosa (linazza) e produceva altri steli secondari ('mprucchi).
Chi non voleva occuparsi della coltivazione del lino dava il terreno a mezzadria coi seguenti patti. Il proprietario apprestava la metà della semente e il mezzadro l'altra metà con l'obbligo di fare tutte le coltivazioni necessarie fino alla maciullazione (maglìafina), dopo la quale il prodotto era diviso in parti uguali fra 1'uno e 1'altro. Nei feudi vigevano altri patti. Il contadino (burgisi) aveva il diritto di seminare a lino un tumolo di terreno, ricavandone l'intero prodotto, ma doveva pagare il terratico in frumento (due tumuli circa).

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3. Malattie colpivano la pianta.

3. Verso la metà di aprile si estirpavano le erbe cattive (loglio, trifoglio, giagiolo, ecc.) per ottenere linseme netto, e questo lavoro si chiamava ricurriri lu limi. Passato quel tempo, ciò non poteva più farsi, poiché il lino 'ncacucciulaua, cioè formava la capocchie (cacocciuli), le quali intrecciandosi tra loro impedivano il lavoro.
Il lino era sotto l'influenza di alcune vicende atmosferiche, che ne diminuivano e guastavano il prodotto. Quando, infatti, pioveva molto nel mese di aprile, il lino era colpito da una malattia chiamata pilagrina e prodotta da un'erba cattiva (sinapis dissecta L.), che esercitava una sorta di falso parassitismo. Il lino restava più basso dell'ordinario e il seme non poteva usarsi per la prossima raccolta. Ma se la malattia era grave il lino era inservibile e veniva bruciato.
L'abbondanza delle piogge apportava al lino altri danni, che ne distruggevano il prodotto. In tali casi la pianta, specialmente quella che era più alta, si piegava verso il terreno, come fa il grano nel tempo vicino alla mietitura e si allinazzava, cioè si putrefaceva e poi si bruciava per nettare il terreno.
Anche le brine (ilati) nel detto mese danneggiavano il lino, e lo scirocco infine, quando colpiva il lino nel periodo della fioritura, danneggiava i semi che, restando piccoli e non essendo più atti alla semina, si vendevano la metà del prezzo ordinario. Ma vi erano danni dovuti alla cattiva coltivazione. Quando il lino si estirpava un pò tardi (strasiccu), nella scotulatura la parte esterna degli steli si mescolava capecchio (linazza) e le capocchie si aprivano spontaneamente per deiscenza, lasciando cadere a terra il seme, che era raccolto dalle formiche e dagli uccelli. I quali ne erano tanto ghiotti, che anche quando era collocato a rota e coperto con frasche dai contadini, lo beccavano dalle capocchie.
Ogni pianta di lino produceva da quattro a sei fiori di color celeste, i quali si chiamavano nevuli, e quando la fioritura era completa diceva: lu linu annivulau. Il periodo della fioritura durava 8-10 arni, dopo i quali i fiori alligavano trasformandosi in capocchie (cacocciuli), e quando ciò era avvenuto, si diceva : lu linu 'ncacuccilau.



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4. Malattie colpivano la pianta.

4. Dopo altri otto giorni il lino sburava, cioè gettava tutte le foglioline dello stelo e diventava di un color biondo come la cera ('nciratu). Allora, verso la metà di maggio, il lino si estirpava, ma ciò non poteva farsi quando il terreno, a causa di piogge, era bagnato, perché lino non cutulava, cioè, battendolo, non lasciava cadere la terra attaccata alle radici, e quando il terreno era troppo asciutto, perché il lino non poteva tirarsi dal suolo, e in questi casi si doveva mietere a fior di terra.
Per estirpare il lino, si prendevano con le mani alcuni steli, tirandoli dal suolo. Quattro o cinque prese formavano una manu, che i batteva coi piedi per separare la terra dalle radici e quando ciò vveniva facilmente si diceva : lu linu cotula.
Quattro manu formavano una manna, che si legava coli' ampelodesmo (ammannunari). Le manne si mettevano con le radici rivolte al suolo, disposte a rota di 12 a 13 alternativamente, in modo che ogni quattro rote formavano una sàrcina, composta di 50 manne. Un tumolo li terra produceva, in media, cinque a sei sàrcine.
Dopo quindici giorni circa, il lino si assimintava. Si stendeva al suolo una tenda e vi si collocavano sopra una o più pietre, sulle quali ti battevano con una mazza di legno le pannocchie per farne uscire il seme (linusa), che poi si ribatteva e si arieggiava (si sfruvuliava).
Un tumulo di terra produceva, in media, 6 a 8 tumoli di linseme, che si vendeva a tari otto il tumolo ai mulattieri, che l'esportavano in Palermo. Dal linseme si estraeva l'olio di lino, che serve agli usi dell'arte tintoria e giova ai pittori per le decorazioni di sale, gli impiantiti e i mobili di legno e di qualsiasi specie. In farmacopea il linseme è usato per cataplasmi in alcune malattie.
Dopo essere state assimintati, le manne si disponevano a rota con le radici rivolte ali' infuori e terminanti in alto a cono, sulla cui sommità si mettevano grosse pietre per tenerle tutte a posto.

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5. Macerazione de lino.

5. Verso la metà di agosto cominciava la macerazione del lino nelle acque fluviali, e precisamente in alcune gore, dette nache, le quali consistevano in certi avvallamenti naturali del letto del fiume che si accrescevano artificialmente con prese fatte di pietre, stoppia e altro materiale.
Le gore usate nel fiume del nostro territorio erano tre, la prima nell' ex feudo Pecorone, la seconda nella contrada Cannitello e la terza nella contrada Margi. In esse si macerava il lino di Ciminna e pei tolleranza anche quello di Vicari, Roccapalumba, Regalgiofalo e Caccamo. Ad ogni gora erano addetti circa dieci operai, chiamati maragunàra, e si facevano varie nacate, delle quali ognuna durava in media 8-10 giorni, durante i quali l'acqua snervava e scomponeva i gambi del lino. Il periodo della macerazione durava in tutto circa due mesi (dal 15 agosto al 15 ottobre).
Per mettere il lino nella gora, gli operai, con la gambe scoperte, si collocavano a fila in mezzo alle acque, in modo che l'ultimo di essi che era sulla sponda dava un fascio di lino, composto di 8 a 10 manne, al più vicino e questo a quello che seguiva, finché 1' operaio, che era all'altra estremità, metteva il fascio sul fondo della gora che calcava con un macigno per tenerlo a posto. A fianco di questo ne collocava un altro, legandolo al primo, e così faceva di seguito.
Ad ogni proprietario di lino si dava la metà più corta di una tacca, di cui la metà più lunga rimaneva infissa nel lino. Ogni tacca portava segnato il numero della sarcine e delle manne. Per togliere il lino dalle gore, gli operai si collocavano nel modo suddetto, procedendo però nel senso inverso, finché l'ultimo operaio, che stava sulla sponda, lo consegnava al proprietario, il quale dopo averlo fatto asciuttare, lo trasportava al luogo, in cui doveva farlo maciullare.
I maragunàra percepivano per ogni sàrcina tre carrini, poi da due a tre tari e dai proprietan di altri paesi quattro tari, ma se avveniva una tempesta e scendeva la piena nel fiume travolgendo e portando via il lino non avevano diritto ad alcuna mercede. Oltre al detto pagamento essi ricevevano in regalo, dopo la consegna, una o due anne di lino.
Ma i maggiori guadagni li ritraevano nei suddetti casi di tempesta, nei quali prima che arrivasse la piena toglievano dal fiume parte lino e dopo raccoglievano quello disperso lungo il fiume1

(1) I proprietari del tino per scongiurare il pericolo delle tempeste nel periodo della macerazione e per ottenere altre grazie, promettevano a qualche santo una o più manne di lino scotolato, (spatuliatu), e alle chiese l'ammitto formato da tre palmi di tela, o di tessere il lino donato alle stesse. Da ciò nacque il modo proverbiale : dari o vulliri l'ammittu, cioè qualche piccolo regalo.

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6. Maciullazione del lino.

6. Finalmente il lino si maciullava (magliaia) per rompere la parte esterna degli steli, e ciò si eseguiva sopra una pietra detta ammazzaturi con una mazza di legno a due battenti col manico in forma di martello, chiamato magghiu. Vi erano i macellatori di mestiere (magliatura), che lavoravano a giornata col salario di tari quattro al giorno pltre il vitto, o a cottimo in ragione di tre o quattro tari per ogni sàrcina, maciullandone in media due al giorno.
Dopo questa operazione il lino era diviso dalla frasca (cutulatina) e raccolto in fasci di venti manne. Quindi cominciavano i lavori donnneschi della filatura e della tessitura, i quali erano uguali in tutti i paesi della Sicilia, e ciò avveniva nel principio della primavera : quannu 'a mennula sciurisci, la fimmina impazzisci, perché vuole cominciare a tessere. Le tele duravano molti anni, e alcune si tramandavano da madre a figlia, di generazione in generazione.